Kodachrome, la rivoluzione di Ghirri

di Paolo Valassi

Nel 1978 Luigi Ghirri pubblicò il suo primo libro con la casa editrice Punto e Virgola, da lui fondata insieme alla moglie Paola e a Giovanni Chiaramonte.
Kodachrome, questo il titolo, è diventato un libro di culto, introvabile se non fra i collezionisti e raggiungendo quotazioni superiori al migliaio di euro a copia. Oggi, a vent’anni esatti dalla morte di Ghirri, la casa editrice inglese (!) MACK ne ha pubblicato la seconda edizione. Questa nuova edizione di Kodachrome è un facsimile dell’originale, adotta lo stesso design, lo stesso layout del testo e la stessa sequenza delle immagini ma utilizza una nuova scansione delle pellicole originali di Ghirri in modo da sfruttare le moderne tecnologie di stampa. E’ inoltre inclusa un’agile dispensa contenente un breve saggio di Francesco Zanot che analizza l’impatto avuto da Kodachrome nella storia della fotografia. Impatto, diciamo subito, dirompente. Per molti motivi.

Kodachrome - copertina libro


“Ho cercato nel gesto del guardare il primo passo per cercare di comprendere. [...] Dalla necessità e dal desiderio di interpretare e tradurre il segno e il senso di questa somma di geroglifici che è il reale, nasce il mio lavoro. [...] Il senso che cerco di dare al mio lavoro è quello di verificare come sia ancora possibile desiderare e affrontare la strada della conoscenza per poter distinguere l’identità precisa dell’uomo, delle cose, della vita, dall’immagine dell’uomo, delle cose, della vita.”

Per Ghirri fotografare è un educazione allo sguardo rivolta ai segni del mondo e finalizzata a dare un significato a quello che si ha di fronte. Significato che non sarà eterno, stabile, perché noi cambiamo, il mondo cambia e anche i significati cambiano.
Se questa è la filosofia del Maestro, dal punto di vista pratico tutto ciò si traduce in alcuni principi base.

Il primo è il rifiuto di un unico, vincolante, canone visivo di lettura del mondo che, se adottato, impedirebbe di vedere la realtà secondo la propria memoria, il proprio pensiero, la propria sensibilità.
“Io penso che molti valori non siano leggibili all’interno di codici precisi. Ritengo che all’interno dell’immagine fotografica, e in particolare nel mio lavoro, confluiscano altre immagini: cinematografiche, letterarie, musicali, pittoriche ecc.”

Il secondo principio, diretta conseguenza del precedente, è il rifiuto della distinzione fra immagini “basse” e “alte”, fra “bello” e “brutto”.
Ghirri fotografa vetrine insignificanti, distributori automatici di frutta, posacenere, sale d’aspetto, l’Italia in miniatura…cioè cose che stando a un certo gusto fotografico comune, soprattutto amatoriale, non avrebbe mai dovuto fotografare. Ma se si vuole decifrare e dare un senso ai geroglifici del mondo non ci si può permettere di distinguere fra “bello” e “brutto”.

Ghirri - Lido di Spina


Il terzo principio riguarda l’afasia dello sguardo. Ghirri, oltre che grande fotografo, ci ha lasciato moltissimi scritti e quindi vale sempre la pena usare le sue parole: 
“Io credo che una delle pochezze della fotografia sia la autolimitazione delle possibilità espressive. In qualsiasi film, ad esempio, c’è un succedersi di momenti diversi dove piove, dove la luce è più bella, dove la luce è brutta, dove la luce è interessante, dove la luce non è interessante. Un cambiamento continuo, insomma. Tutta la gamma delle possibilità espressive e di racconto vengono esplorate. Nella fotografia, invece, la riduzione delle possibilità di rappresentazione ottimale diventa una forma di afasia dello sguardo. Il mio desiderio è sempre stato quello di lavorare senza limitazioni, a 360°”. 
In fotografia, i codici, le abitudini mentali visive limitano le nostre possibilità di scatto ai momenti in cui la luce è perfetta. Se vogliamo raccontare e interpretare il mondo non è necessario che la luce sia ottimale. Non esiste una luce bella e una brutta, una triste e una allegra. La luce è equiparata a un oggetto. 

Il quarto principio riguarda gli “indizi”. In un lavoro cominciato nel 1976 intitolato Identikit, Ghirri fotografò se stesso, ma, anziché fare il suo autoritratto riprese il suo appartamento a Modena, gli scaffali della sua libreria, la sua collezione di dischi a volte un po' nascosti da piccole suppellettili come un mappamondo, una cartolina, una squadra da disegno di legno. La stessa operazione fu fatta anni dopo con il lavoro sul pittore Giorgio Morandi. Morandi era già morto e non potendo realizzare un ritratto diretto, Ghirri riprese lo studio dell’artista per metterne in risalto, attraverso gli spazi e le piccole cose, la personalità. Una specie di ritratto indiretto. Ghirri ha dimostrato che fotografare può anche essere un modo di guardare la realtà per indizi. Cioè ha interpretato gli oggetti come segni e questi segni danno il senso di qualcos’altro, in questo caso l’identikit, suo o di Morandi. 

Il quinto principio è riassunto da questa frase: “Solo una struttura narrativa riesce a dare un ordine all’eccesso di senso prodotto dai segni che possono rivelarsi come dei relitti”. Per Ghirri lavorare con le fotografie significa compiere un lavoro di montaggio simile a quello svolto da un regista cinematografico. E’ importante il progetto, non la singola immagine. Non gli interessa se un’immagine è stata scattata negli anni ’70 e un’altra negli anni ’90: le associa comunque. E a proposito di progetto Ghirri ha sempre preferito pubblicare il proprio lavoro tramite libri, non con mostre, in quanto solo nei libri è possibile creare un ritmo cinematografico.

Ghirri - Scandiano


Tutti questi principi “ghirriani” si traducono, dal punto di vista tecnico, in scelte ben precise riguardanti il modo di inquadrare, la pellicola utilizzata e l’uso degli obbiettivi. Ghirri usa quasi sempre obbiettivi normali o medio tele, mai grandangoli, e non ha mai usato punti di ripresa arditi, alla Rodchenko per intenderci: questo per far corrispondere l’immagine il più possibile allo sguardo usuale. Del resto sarebbe un controsenso voler distorcere e modificare la realtà quando la si vuole capire e decifrare. Un’altra caratteristica comune delle sue fotografie è il fatto di essere pochissimo contrastate. I colori non sono carichi ma volutamente morbidi, tenui, slavati. Ghirri usa pellicole negative a colori, non diapositive. Anche in questo caso il suo scopo era di avere la maggior aderenza possibile con la realtà. Non ci devono essere forzature rispetto allo scarto tonale della realtà. Kodachrome contiene tutto ciò di cui abbiamo parlato: la serie fotografica, la stratificazione temporale, il rimando ad altro, la definizione del senso determinato dal contesto, la bellezza del banale. Ma anche altro: Luigi Ghirri amava ripetere che il mondo ormai non era più conosciuto attraverso l'esperienza visiva diretta, ma mediante la sua riproduzione fotografica. Kodachrome è (era, la sua produzione è cessata nel 2009) una pellicola positiva, a bassa sensibilità e ad altissima risoluzione, rinomata per la saturazione cromatica. Ma soprattutto simbolo della fotografia di massa. 
Ghirri si muove dentro questa cultura reinventandola: “A me non interessano: le immagini e i momenti “decisivi”, lo studio o l’analisi del linguaggio fine a se stesso, l’estetica, il concetto o l’idea totalizzante, l’emozione del poeta, la citazione colta, la ricerca di un nuovo credo estetico, l’uso di uno stile. Il mio impegno è vedere con chiarezza […] per poter vedere e rendere riconoscibili i geroglifici incontrati”.

Luigi Ghirri – Kodachrome, London, Mack, 2012 (+ booklet con traduzione inglese, francese e tedesca)

Ghirri - Reggio Emilia